E' un momento storico. Piaccia o meno. Il mondo è globale e non è detto che ne rimarremo al vertice, il nostro sistema di sviluppo è insostenibile e potrebbe ucciderci tutti, la desertificazione e la distruzione delle economie tradizionali porta orde di affamati a spingere sulle nostre frontiere, e via dicendo. Il mondo ci aspetta al varco e tutti ce ne stiamo rendendo conto (ad esclusione del governo italiano e dei suoi elettori). E' tempo di una svolta, se vogliamo vedere dei nipoti.
Queste nuove sfide ci impongono categorie di pensiero nuove con cui confrontarci e la stessa bipartizione dell'azione politica in destra e sinistra potrebbe risultarne compromessa. Non sarebbe necessariamente un male, ma è difficile pensare che si possa rispondere alle esigenze del presente senza imparare dal passato. Oggi che al centro come agli estremi destra e sinistra hanno tanti punti in comune da suscitare sospetti di possibili rimescolamenti del sistema, credo che l'idea di sinistra giochi ancora un ruolo fondamentale per l'umanità.
Ci sono tre elementi fondanti di quest'idea che sono irrinunciabili: il primo risale alla nascita del termine nell'ambito della Rivoluzione Francese, che - benché spesso ce ne si dimentichi - evidenzia che la sinistra è la forza del cambiamento, non della conservazione. Il secondo elemento si definisce con chiarezza con la costituzione della Prima Internazionale Socialista, un'assemblea estremamente composita che comprendeva anche liberali (tra cui i mazziniani) ed anarchici, uniti dall'idea che diritti e libertà dovessero diffondersi, essere qualcosa di inclusivo e non esclusivo, che gli ultimi non fossero meno importanti dei primi. Si trattava di un'idea molto vaga, che accomunava esperienze molto diverse e che credo, dalla caduta del muro di Berlino, dovrebbe ispirare una sinistra capace di uscire da dogmatismi e feticismi identitari per trovare soluzioni adatte al mondo presente.
Nonostante ciò, ritengo che il terzo elemento irrinunciabile per un futuro della sinistra sia da cercarsi nella "tradizionalissima" opera di chi di quella internazionale ha preso la guida: Marx.
Oggi più che mai la crisi ci spinge a guardarci indietro in cerca di risposte; Keynes, Marx, e persino le economie tradizionali vengono diffusamente riproposte. E' necessario diffidare da chi ripropone modelli del passato limitandosi ad un nostalgico riadattamento, idealizzando passate “età dell'oro”. Non ci si può dimenticare che per creare è necessario fare sintesi di esperienze diverse. Bisogna conoscere passato e presente, e non bisogna aver timore di conoscere e capire ciò che hanno da insegnare anche esperienze reazionarie, senza le quali si rischia di perdere la visione d'insieme.
Tuttavia Marx, tra i classici della storia della cultura occidentale, credo continui a ricoprire un ruolo particolare, rappresentando al meglio elementi costitutivi della prospettiva di una società giusta: il rifiuto dell'avidità come dato di fatto della natura umana, l'attenzione agli ultimi, l'occhio critico verso le patinate e strombazzate teorie economiche delle classi dominanti, un'idea di esistenza collettiva, la concezione del lavoro come luogo della realizzazione dell'uomo e la denuncia del lavoro alienante. Si tratta di elementi che possono aiutarci a ritrovare la strada, e che non possono essere accantonati senza accantonare l'idea stessa di sinistra.
Eppure, tra i tanti fattori che credo ostacolino la possibilità di concepire un nuovo ordine mondiale, credo ci sia anche l'eccessivo amore per Marx. E' sin troppo diffusa una lettura della sua opera che lo estrapola dal suo contesto e gli rende fama ma non giustizia, e rischia di banalizzarne il potenziale valore conoscitivo. Non c'è bisogno di perder tempo nel ricordare la tragedia del socialismo reale, anche nei suoi contesti più edulcorati; questo - benché ci sia ancora qualcuno che propone soluzioni pressoché identiche, solo fingendo di poterle realizzare senza l'oppressione del dissenso - è per lo più fuori discussione.
Il problema è che è ben più diffuso un utilizzo acritico delle sue pagine di analisi, e vorrei dunque prendermi un po' di tempo per ricontestualizzarne l'opera alla luce di alcune tappe fondamentali della storia dell'economia, tralasciando temi non economici benché anche su questi ultimi (in particolare la questione ebraica) ritengo si sia fatta molta strada e si imponga una riflessione aggiornata, non acritica.
Partirei nel mio percorso dallo stesso termine “capitalismo”: una volta - come oggi - era il Capitale la fonte del potere. Tutti avevano bisogno di scarpe, era evidente. Chi aveva capitale e poteva avviare un'industria era in grado di soddisfare questo bisogno. La produzione in grande scala con divisione del lavoro e tecnologie, ed il conseguente abbattimento dei costi unitari garantiva grandi vendite, dunque un'enorme ricchezza ed un enorme potere.
L'attenzione era posta sulla produzione in quantità e a bassi costi, creando tra l'altro quel sistema mostruoso di cui la nuova classe dominante cantava le lodi: il potere produttivo e creativo era tale che il più povero degli operai aveva le scarpe mentre un Re Inca non le aveva mai avute. D'altra parte, le classi subalterne pagavano questi beni perdendo - per sempre - l'armonia con la natura e lavorando sin da bambini quattordici ore al giorno in fabbriche fumose che hanno giustamente attratto lo sguardo indignato di Marx.
In questo contesto Marx ha – tra le varie - sollevato le sue teorie sulle crisi cicliche di sovrapproduzione, alle quali molti intellettuali vogliono ascrivere questa crisi economica e che avrebbero dovuto portare al crollo spontaneo del capitalismo.
Ma la realtà che Marx descrive è completamente diversa, e di quella odierna può solo dare un'idea. Può descriverne lo spirito, non le forme. Oggi - non tutti lo sanno - esistono dei sistemi precisi per prevenire e quasi annullare le crisi cicliche; si tratta dei tassi di sconto delle banche centrali. Se abbassati questi favoriscono la crescita economica, se tenuti alti (come è accaduto nell'UE) questi ne determinano un rallentamento volontario ed evitano che le banche inizino a sostenere investimenti insensati. E' proprio per questo che - benché la cosa non piaccia a molti - non vi è più la sovranità della politica sul denaro: immaginatevi di mettere in mano a Berlusconi una leva che gli consenta di accelerare l'economia sotto elezioni, salvo poi vederla esplodere poco dopo aver vinto.
Il problema marxiano della sovrapproduzione insomma è stato preso in considerazione, delle soluzioni sono state previste, ed hanno funzionato a lungo.
Quello che è successo negli USA è che i sistemi non hanno funzionato, non sono stati attivati. Si sono ripetuti errori madornali, si è creduto di poter trarre ricchezza dalla ricchezza senza il lavoro; una deregulation ha portato a produrre dei sistemi surreali di cui si è perso il controllo. Ma non bisogna dimenticare che, benché santi non ne esistano, questa crisi è una produzione anglosassone: il sistema economico mitteleuropeo era stabile. Le analogie con Marx non mancano, ma descrivere l'oggi con le sue parole allontana indebitamente dal difficile ma fecondo compito di capire realmente quello che è successo, e rischia di portare a conclusioni inappropriate, come è normale quando si ignora ciò su cui si vuole intervenire.
Vorrei chiarire meglio questa questione ritornando al punto di partenza: quando si parla di capitalismo oggi, siamo sicuri si parli della stessa cosa a cui si riferiva Marx?
Marx prevedeva queste crisi cicliche per saturazione del mercato, ma già nei primi anni del '900 Ford ha concepito un sistema per aggirare il problema: “se l'operaio lo pago di più, questo poi me le compra anche le macchine, oltre a produrle”. Si è scoperta la cosiddetta “domanda interna”, che oggi Epifani e Draghi chiedono si sostenere. Questo, oltre a salvare il capitalismo, ha anche migliorato notevolmente le condizioni dei lavoratori, cosa non disprezzabile.
Marx metteva in guardia da questi miglioramenti delle condizioni, perché potevano infiacchire ed allontanare dalla prospettiva della “terra dell'oro”: il comunismo. Poiché così come l'ha concepito lui non sembra molto di successo per una serie di motivi (non solo economici), direi che - in attesa di eventuali nuovi modelli - le condizioni dei lavoratori nell'ambito di sistemi non comunisti sono una variabile non irrilevante.
Tuttavia Ford non ha certo risolto tutti i problemi: la crisi del '29 - che è nata come crisi finanziaria, ma anche di sovrapproduzione - ha aggiunto altri elementi al mosaico ed ha portato a concepire altre soluzioni. Una è quella già vista del controllo dei mercati da parte delle banche centrali, un'altra – la più importante – è da ricercarsi in Keynes, personaggio che meriterebbe una trattazione a parte. Attraverso la sua opera e le applicazioni di Roosevelt si è capito che, comunque la si veda, un'economia di puro mercato non solo non è equa, ma nemmeno è stabile ed efficace. Si è avviato pian piano quel sistema misto di produzione pubblico-privato che ha portato al suo massimo l'intuizione fordista. Si sono poste le basi per le socialdemocrazie europee in cui - dove hanno funzionato bene - quasi tutti sono classe media e si possono permettere ospedali di qualità, istruzione avanzata, vacanze e via dicendo. Oggi nei paesi scandinavi ne vediamo dei notevoli esempi che sono riusciti a superare (già da prima della crisi dei mutui) gli USA per PIL pro capite, e con una uguaglianza sociale senza pari. C'è da dire che questi paesi hanno raggiunto questi risultati leggendo le pagine di Keynes in maniera non schematica e dogmatica: non è vero che, come si crede in certa parte della sinistra italiana, basta aumentare la spesa pubblica per aumentare il benessere. Così facendo si aumenta solo un debito pubblico. Ma questa è un'altra storia...
Un terzo elemento di novità ci introduce al problema del plusvalore. Dopo la crisi del '29 le imprese si sono riunite in cartelli per tenere alti i prezzi, ma questo ha danneggiato ancora di più la situazione. C'è infatti un concetto fondamentale che già Aristotele intuiva ma di cui troppo di rado si fa tesoro: il prezzo è determinato dal rapporto tra domanda e offerta. Quanto vale la vostra casa? Quanto vale la carta su cui state leggendo? Ed i vostri vestiti? Non esiste una risposta oggettiva, ne esiste solo una relazionale, ed il loro valore economico potrebbe cambiare da un momento all'altro.
La Ford produceva macchine in serie, standard; puntava sui prezzi bassissimi e sulla quantità. Ma quel sistema, pur alzando gli stipendi degli operai, ha saturato il mercato. Dopo la crisi, la General Motors ha ideato un nuovo sistema gestionale che consentiva di andare oltre la quantità e produrre veicoli il più vicino possibile alle esigenze dei consumatori; si è sviluppato un sistema di prodotti di qualità ad alto prezzo anziché di pura quantità. Questo cambiamento porta a delle riflessioni che gli economisti marginalisti già avevano esposto a fine '800.
Marx è l'ultimo di una generazione di economisti che riteneva che il valore di un bene derivasse dal lavoro in esso incorporato, e partendo da questi presupposti dunque è sacrosanta la teoria del plusvalore. Ma la verità - come chiarisce Schumpeter nelle sua analisi dei cicli economici e dello sviluppo economico - è che non è così: se il valore economico deriva solo dal rapporto tra domanda e offerta, il lavoratore non produce valore se il suo lavoro non è indirizzato a soddisfare un bisogno, una domanda. Se il lavoro - per fare un esempio - è orientato a costruire delle centrali nucleari che quando saranno in funzione saranno tecnologie già obsolete, oppure se orientato a produrre vestiti scomodi e orribili, si tratta di tempo, fatica, risorse - in altre parole, valore - sprecati; il loro risultato crea più che altro problemi di smaltimento.
Questo dato di fatto ha ricostituito giustificazione sociale della figura dell'impresa, intaccato di molto l'idea marxiana di lotta tra classi, ed è tutt'ora la giustificazione sociale del profitto, che si ridefinisce come l'incentivo ad un investimento in un'idea che produca valore economico. Non remunera solo il rischio e la produzione di un valore insito nell'attività che si rende disponibile, ma anche e soprattutto l'ideazione di un valore che non è concepibile altrimenti, un valore che nasce “dal nulla”, e non dipende ne dal capitale ne dal lavoro di per se. A contare non è più il capitalista inteso come persona che mette soldi e ne trae ricavi, ma l'imprenditore e il manager, figure in grado di identificare (o creare) bisogni che si emancipano sempre di più da quella del possessore di capitale. Ad essere precisi, è sempre stato così, ma la diffusa coincidenza tra capitalista ed imprenditore, nonché forme economiche più rudimentali non lo rendevano evidente. Oggi il capitalista è qualcuno che all'imprenditore e agli amministratori presta i soldi, ed ha perso gran parte della sua identità. Grandi aziende hanno un azionariato numerosissimo, e molte piccole quote sono in mano a cittadini normalissimi che grazie all'espansione “postfordista” della classe media possono permettersi di risparmiare. Le Public Company hanno un azionariato talmente frammentato da non avere padrone; si autodirigono.
Inoltre, profitti legati all'impresa si sono - marxianamente - ridotti di molto: molte imprese dividono raramente gli utili; per molti il mercato azionario si tratta di un luogo dove collocare risparmi onde evitare quantomeno che siano corrosi troppo dall'inflazione. Il fallimento di Parmalat ha mandato in rovina decine di famiglie normalissime; eppure se ragioniamo con le categorie marxiane erano loro i “capitalisti”. E' ovvio poi che con questo termine oggi ci si riferisce a chi certe aziende le controllava, a chi con il capitale ci specula, e - in Italia ma non solo - atterra sempre in piedi, ma il fatto che il capitale di per se non sia più automaticamente remunerativo non è un dettaglio.
In conclusione, è evidente che viviamo un mondo estremamente diverso da quello dipinto da Marx, e le sfide sono molto diverse. Per dirla chiaramente, affermare che Marx aveva predetto questa crisi significa ridurlo ad una sorta di Nostradamus, non ha valenza tecnica.
I problemi oggi riguardano l'impossibilità di rivendicazioni sindacali in un contesto di concorrenza tra paesi a diverso costo del lavoro che porta ad un aumento in tutto il mondo del divario tra ricchi e poveri, riguardano le folle di persone che fuggono dalla fame, riguardano un modello di sviluppo che ci ucciderebbe, un sistema monetario e finanziario che forse è meglio della “sovranità monetaria”, ma che è finito tragicamente fuori controllo per la seconda volta e non si può accettare così com'è. Eppure credo che, in un modo o nell'altro, se sapremo da Marx trarre lo spirito e non i dettagli e se sapremo accostarlo ad altre elaborazioni, abbia ancora molto da dire.
Non c'è dubbio che il nuovo ordine mondiale debba essere equilibrato, non votato agli eccessi, all'avidità e ai bisogni inutili, fondato sul lavoro, solidale, e soprattutto deve guardare con generosità alle classi subalterne di tutto il mondo. Altrimenti sarà un disastro, come vediamo oggi con l'immigrazione di massa di disperati.
Secondo Marx la rivoluzione sarebbe stata mondiale, o non sarebbe stata. Non si sa mai che in futuro, costituita una società civile globale ed eliminato il problema della competizione economica tra stati che sta facendo anche troppe vittime, non si formino finalmente le condizioni per arrivare, pacificamente, ad un ordine molto simile a quello da lui ideato...
P.F.
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