lunedì 8 giugno 2009

ARCHIVIO: CONFERENZA





















GIOVEDì 7 MAGGIO

ORE 16:30


SONO INTERVENUTI:

MARIO PORTANOVA
Giornalista, TESTIMONE G8 2001
Coautore di “GOVERNARE CON LA PAURA”
Autore di “INFERNO BOLZANETO, L'ATTO DI ACCUSA DEI MAGISTRATI DI GENOVA”

LORENZO GUADAGNUCCI
Giornalista, TESTIMONE DELLA DIAZ
Autore di “NOI DELLA DIAZ, LA NOTTE DEI MANGANELLI AL G8 DI GENOVA”
Fondatore del COMITATO VERITA' E GIUSTIZIA PER GENOVA
Autore del blog “DISTRATTI DALLA LIBERTA”

MARCO LOMBARDI
Docente di TEORIA E TECNICHE DELLA COMUNICAZIONE DI MASSA presso l'Università Cattolica di Milano

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PRESENTAZIONE:

G8 2001: Diverse organizzazioni protestano in occasione del G8. Tra le mire principali il WTO. Le forze dell'ordine provvedono a far scorrere sangue... media e governo a dipingere un movimento nella sua interezza come un manipolo di vandali.


11 dicembre 2001: La Cina entra nel WTO

Elezioni 2008: Tremonti veste i panni del No Global, accusa la Cina di tutte le sue mancanze, e si è diffusa la paura del libero mercato

Novembre 2008: Sono confermate le sentenze sui fatti della Diaz. Si accumulano inoltre ombre su ombre su quelle vicende, che Mario Portanova e Lorenzo Guadagnucci, tra gli altri, aiutano a far emergere.

Comunque la pensiate, quelle associazioni e quei cittadini non erano scesi in piazza per venir macellati dalle forze dell'ordine, non hanno nulla a che fare con i Black Block, e, al di la delle soluzioni proposte, volevano sollevare problematiche che improvvisamente sono diventate pubblico dominio.

...voi dei CONTENUTI delle loro proteste avete sentito parlare? Oppure del G8 vi ricordate solo la questione violenza? Qual'è stato il comportamento dei mass media?

..è stato un episodio? Una coincidenza? Un insieme di colpe individuali, mancanze, previsioni errate e stranezze da parte di politici e media? O forse c'è di mezzo quantomeno una strategia comunicativa? O altro?

E soprattutto... è stato un caso isolato, o solo un esempio estremo?

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DAVANTI ALLA CRISI: PROSPETTIVE PER UN RUOLO DELLA SINISTRA NEL NUOVO ORDINE MONDIALE











E' un momento storico. Piaccia o meno. Il mondo è globale e non è detto che ne rimarremo al vertice, il nostro sistema di sviluppo è insostenibile e potrebbe ucciderci tutti, la desertificazione e la distruzione delle economie tradizionali porta orde di affamati a spingere sulle nostre frontiere, e via dicendo. Il mondo ci aspetta al varco e tutti ce ne stiamo rendendo conto (ad esclusione del governo italiano e dei suoi elettori). E' tempo di una svolta, se vogliamo vedere dei nipoti.


Queste nuove sfide ci impongono categorie di pensiero nuove con cui confrontarci e la stessa bipartizione dell'azione politica in destra e sinistra potrebbe risultarne compromessa. Non sarebbe necessariamente un male, ma è difficile pensare che si possa rispondere alle esigenze del presente senza imparare dal passato. Oggi che al centro come agli estremi destra e sinistra hanno tanti punti in comune da suscitare sospetti di possibili rimescolamenti del sistema, credo che l'idea di sinistra giochi ancora un ruolo fondamentale per l'umanità.

Ci sono tre elementi fondanti di quest'idea che sono irrinunciabili: il primo risale alla nascita del termine nell'ambito della Rivoluzione Francese, che - benché spesso ce ne si dimentichi - evidenzia che la sinistra è la forza del cambiamento, non della conservazione. Il secondo elemento si definisce con chiarezza con la costituzione della Prima Internazionale Socialista, un'assemblea estremamente composita che comprendeva anche liberali (tra cui i mazziniani) ed anarchici, uniti dall'idea che diritti e libertà dovessero diffondersi, essere qualcosa di inclusivo e non esclusivo, che gli ultimi non fossero meno importanti dei primi. Si trattava di un'idea molto vaga, che accomunava esperienze molto diverse e che credo, dalla caduta del muro di Berlino, dovrebbe ispirare una sinistra capace di uscire da dogmatismi e feticismi identitari per trovare soluzioni adatte al mondo presente.

Nonostante ciò, ritengo che il terzo elemento irrinunciabile per un futuro della sinistra sia da cercarsi nella "tradizionalissima" opera di chi di quella internazionale ha preso la guida: Marx.

Oggi più che mai la crisi ci spinge a guardarci indietro in cerca di risposte; Keynes, Marx, e persino le economie tradizionali vengono diffusamente riproposte. E' necessario diffidare da chi ripropone modelli del passato limitandosi ad un nostalgico riadattamento, idealizzando passate “età dell'oro”. Non ci si può dimenticare che per creare è necessario fare sintesi di esperienze diverse. Bisogna conoscere passato e presente, e non bisogna aver timore di conoscere e capire ciò che hanno da insegnare anche esperienze reazionarie, senza le quali si rischia di perdere la visione d'insieme.

Tuttavia Marx, tra i classici della storia della cultura occidentale, credo continui a ricoprire un ruolo particolare, rappresentando al meglio elementi costitutivi della prospettiva di una società giusta: il rifiuto dell'avidità come dato di fatto della natura umana, l'attenzione agli ultimi, l'occhio critico verso le patinate e strombazzate teorie economiche delle classi dominanti, un'idea di esistenza collettiva, la concezione del lavoro come luogo della realizzazione dell'uomo e la denuncia del lavoro alienante. Si tratta di elementi che possono aiutarci a ritrovare la strada, e che non possono essere accantonati senza accantonare l'idea stessa di sinistra.

Eppure, tra i tanti fattori che credo ostacolino la possibilità di concepire un nuovo ordine mondiale, credo ci sia anche l'eccessivo amore per Marx. E' sin troppo diffusa una lettura della sua opera che lo estrapola dal suo contesto e gli rende fama ma non giustizia, e rischia di banalizzarne il potenziale valore conoscitivo. Non c'è bisogno di perder tempo nel ricordare la tragedia del socialismo reale, anche nei suoi contesti più edulcorati; questo - benché ci sia ancora qualcuno che propone soluzioni pressoché identiche, solo fingendo di poterle realizzare senza l'oppressione del dissenso - è per lo più fuori discussione.

Il problema è che è ben più diffuso un utilizzo acritico delle sue pagine di analisi, e vorrei dunque prendermi un po' di tempo per ricontestualizzarne l'opera alla luce di alcune tappe fondamentali della storia dell'economia, tralasciando temi non economici benché anche su questi ultimi (in particolare la questione ebraica) ritengo si sia fatta molta strada e si imponga una riflessione aggiornata, non acritica.


Partirei nel mio percorso dallo stesso termine “capitalismo”: una volta - come oggi - era il Capitale la fonte del potere. Tutti avevano bisogno di scarpe, era evidente. Chi aveva capitale e poteva avviare un'industria era in grado di soddisfare questo bisogno. La produzione in grande scala con divisione del lavoro e tecnologie, ed il conseguente abbattimento dei costi unitari garantiva grandi vendite, dunque un'enorme ricchezza ed un enorme potere.

L'attenzione era posta sulla produzione in quantità e a bassi costi, creando tra l'altro quel sistema mostruoso di cui la nuova classe dominante cantava le lodi: il potere produttivo e creativo era tale che il più povero degli operai aveva le scarpe mentre un Re Inca non le aveva mai avute. D'altra parte, le classi subalterne pagavano questi beni perdendo - per sempre - l'armonia con la natura e lavorando sin da bambini quattordici ore al giorno in fabbriche fumose che hanno giustamente attratto lo sguardo indignato di Marx.

In questo contesto Marx ha – tra le varie - sollevato le sue teorie sulle crisi cicliche di sovrapproduzione, alle quali molti intellettuali vogliono ascrivere questa crisi economica e che avrebbero dovuto portare al crollo spontaneo del capitalismo.

Ma la realtà che Marx descrive è completamente diversa, e di quella odierna può solo dare un'idea. Può descriverne lo spirito, non le forme. Oggi - non tutti lo sanno - esistono dei sistemi precisi per prevenire e quasi annullare le crisi cicliche; si tratta dei tassi di sconto delle banche centrali. Se abbassati questi favoriscono la crescita economica, se tenuti alti (come è accaduto nell'UE) questi ne determinano un rallentamento volontario ed evitano che le banche inizino a sostenere investimenti insensati. E' proprio per questo che - benché la cosa non piaccia a molti - non vi è più la sovranità della politica sul denaro: immaginatevi di mettere in mano a Berlusconi una leva che gli consenta di accelerare l'economia sotto elezioni, salvo poi vederla esplodere poco dopo aver vinto.

Il problema marxiano della sovrapproduzione insomma è stato preso in considerazione, delle soluzioni sono state previste, ed hanno funzionato a lungo.

Quello che è successo negli USA è che i sistemi non hanno funzionato, non sono stati attivati. Si sono ripetuti errori madornali, si è creduto di poter trarre ricchezza dalla ricchezza senza il lavoro; una deregulation ha portato a produrre dei sistemi surreali di cui si è perso il controllo. Ma non bisogna dimenticare che, benché santi non ne esistano, questa crisi è una produzione anglosassone: il sistema economico mitteleuropeo era stabile. Le analogie con Marx non mancano, ma descrivere l'oggi con le sue parole allontana indebitamente dal difficile ma fecondo compito di capire realmente quello che è successo, e rischia di portare a conclusioni inappropriate, come è normale quando si ignora ciò su cui si vuole intervenire.

Vorrei chiarire meglio questa questione ritornando al punto di partenza: quando si parla di capitalismo oggi, siamo sicuri si parli della stessa cosa a cui si riferiva Marx?

Marx prevedeva queste crisi cicliche per saturazione del mercato, ma già nei primi anni del '900 Ford ha concepito un sistema per aggirare il problema: “se l'operaio lo pago di più, questo poi me le compra anche le macchine, oltre a produrle”. Si è scoperta la cosiddetta “domanda interna”, che oggi Epifani e Draghi chiedono si sostenere. Questo, oltre a salvare il capitalismo, ha anche migliorato notevolmente le condizioni dei lavoratori, cosa non disprezzabile.

Marx metteva in guardia da questi miglioramenti delle condizioni, perché potevano infiacchire ed allontanare dalla prospettiva della “terra dell'oro”: il comunismo. Poiché così come l'ha concepito lui non sembra molto di successo per una serie di motivi (non solo economici), direi che - in attesa di eventuali nuovi modelli - le condizioni dei lavoratori nell'ambito di sistemi non comunisti sono una variabile non irrilevante.

Tuttavia Ford non ha certo risolto tutti i problemi: la crisi del '29 - che è nata come crisi finanziaria, ma anche di sovrapproduzione - ha aggiunto altri elementi al mosaico ed ha portato a concepire altre soluzioni. Una è quella già vista del controllo dei mercati da parte delle banche centrali, un'altra – la più importante – è da ricercarsi in Keynes, personaggio che meriterebbe una trattazione a parte. Attraverso la sua opera e le applicazioni di Roosevelt si è capito che, comunque la si veda, un'economia di puro mercato non solo non è equa, ma nemmeno è stabile ed efficace. Si è avviato pian piano quel sistema misto di produzione pubblico-privato che ha portato al suo massimo l'intuizione fordista. Si sono poste le basi per le socialdemocrazie europee in cui - dove hanno funzionato bene - quasi tutti sono classe media e si possono permettere ospedali di qualità, istruzione avanzata, vacanze e via dicendo. Oggi nei paesi scandinavi ne vediamo dei notevoli esempi che sono riusciti a superare (già da prima della crisi dei mutui) gli USA per PIL pro capite, e con una uguaglianza sociale senza pari. C'è da dire che questi paesi hanno raggiunto questi risultati leggendo le pagine di Keynes in maniera non schematica e dogmatica: non è vero che, come si crede in certa parte della sinistra italiana, basta aumentare la spesa pubblica per aumentare il benessere. Così facendo si aumenta solo un debito pubblico. Ma questa è un'altra storia...

Un terzo elemento di novità ci introduce al problema del plusvalore. Dopo la crisi del '29 le imprese si sono riunite in cartelli per tenere alti i prezzi, ma questo ha danneggiato ancora di più la situazione. C'è infatti un concetto fondamentale che già Aristotele intuiva ma di cui troppo di rado si fa tesoro: il prezzo è determinato dal rapporto tra domanda e offerta. Quanto vale la vostra casa? Quanto vale la carta su cui state leggendo? Ed i vostri vestiti? Non esiste una risposta oggettiva, ne esiste solo una relazionale, ed il loro valore economico potrebbe cambiare da un momento all'altro.

La Ford produceva macchine in serie, standard; puntava sui prezzi bassissimi e sulla quantità. Ma quel sistema, pur alzando gli stipendi degli operai, ha saturato il mercato. Dopo la crisi, la General Motors ha ideato un nuovo sistema gestionale che consentiva di andare oltre la quantità e produrre veicoli il più vicino possibile alle esigenze dei consumatori; si è sviluppato un sistema di prodotti di qualità ad alto prezzo anziché di pura quantità. Questo cambiamento porta a delle riflessioni che gli economisti marginalisti già avevano esposto a fine '800.

Marx è l'ultimo di una generazione di economisti che riteneva che il valore di un bene derivasse dal lavoro in esso incorporato, e partendo da questi presupposti dunque è sacrosanta la teoria del plusvalore. Ma la verità - come chiarisce Schumpeter nelle sua analisi dei cicli economici e dello sviluppo economico - è che non è così: se il valore economico deriva solo dal rapporto tra domanda e offerta, il lavoratore non produce valore se il suo lavoro non è indirizzato a soddisfare un bisogno, una domanda. Se il lavoro - per fare un esempio - è orientato a costruire delle centrali nucleari che quando saranno in funzione saranno tecnologie già obsolete, oppure se orientato a produrre vestiti scomodi e orribili, si tratta di tempo, fatica, risorse - in altre parole, valore - sprecati; il loro risultato crea più che altro problemi di smaltimento.

Questo dato di fatto ha ricostituito giustificazione sociale della figura dell'impresa, intaccato di molto l'idea marxiana di lotta tra classi, ed è tutt'ora la giustificazione sociale del profitto, che si ridefinisce come l'incentivo ad un investimento in un'idea che produca valore economico. Non remunera solo il rischio e la produzione di un valore insito nell'attività che si rende disponibile, ma anche e soprattutto l'ideazione di un valore che non è concepibile altrimenti, un valore che nasce “dal nulla”, e non dipende ne dal capitale ne dal lavoro di per se. A contare non è più il capitalista inteso come persona che mette soldi e ne trae ricavi, ma l'imprenditore e il manager, figure in grado di identificare (o creare) bisogni che si emancipano sempre di più da quella del possessore di capitale. Ad essere precisi, è sempre stato così, ma la diffusa coincidenza tra capitalista ed imprenditore, nonché forme economiche più rudimentali non lo rendevano evidente. Oggi il capitalista è qualcuno che all'imprenditore e agli amministratori presta i soldi, ed ha perso gran parte della sua identità. Grandi aziende hanno un azionariato numerosissimo, e molte piccole quote sono in mano a cittadini normalissimi che grazie all'espansione “postfordista” della classe media possono permettersi di risparmiare. Le Public Company hanno un azionariato talmente frammentato da non avere padrone; si autodirigono.

Inoltre, profitti legati all'impresa si sono - marxianamente - ridotti di molto: molte imprese dividono raramente gli utili; per molti il mercato azionario si tratta di un luogo dove collocare risparmi onde evitare quantomeno che siano corrosi troppo dall'inflazione. Il fallimento di Parmalat ha mandato in rovina decine di famiglie normalissime; eppure se ragioniamo con le categorie marxiane erano loro i “capitalisti”. E' ovvio poi che con questo termine oggi ci si riferisce a chi certe aziende le controllava, a chi con il capitale ci specula, e - in Italia ma non solo - atterra sempre in piedi, ma il fatto che il capitale di per se non sia più automaticamente remunerativo non è un dettaglio.

In conclusione, è evidente che viviamo un mondo estremamente diverso da quello dipinto da Marx, e le sfide sono molto diverse. Per dirla chiaramente, affermare che Marx aveva predetto questa crisi significa ridurlo ad una sorta di Nostradamus, non ha valenza tecnica.

I problemi oggi riguardano l'impossibilità di rivendicazioni sindacali in un contesto di concorrenza tra paesi a diverso costo del lavoro che porta ad un aumento in tutto il mondo del divario tra ricchi e poveri, riguardano le folle di persone che fuggono dalla fame, riguardano un modello di sviluppo che ci ucciderebbe, un sistema monetario e finanziario che forse è meglio della “sovranità monetaria”, ma che è finito tragicamente fuori controllo per la seconda volta e non si può accettare così com'è. Eppure credo che, in un modo o nell'altro, se sapremo da Marx trarre lo spirito e non i dettagli e se sapremo accostarlo ad altre elaborazioni, abbia ancora molto da dire.

Non c'è dubbio che il nuovo ordine mondiale debba essere equilibrato, non votato agli eccessi, all'avidità e ai bisogni inutili, fondato sul lavoro, solidale, e soprattutto deve guardare con generosità alle classi subalterne di tutto il mondo. Altrimenti sarà un disastro, come vediamo oggi con l'immigrazione di massa di disperati.

Secondo Marx la rivoluzione sarebbe stata mondiale, o non sarebbe stata. Non si sa mai che in futuro, costituita una società civile globale ed eliminato il problema della competizione economica tra stati che sta facendo anche troppe vittime, non si formino finalmente le condizioni per arrivare, pacificamente, ad un ordine molto simile a quello da lui ideato...


P.F.

REFERENDUM: DALL'INGOVERNABILITA' ALLA PARTITOCRAZIA


Scritto per: "L'Urlo" - il periodico di ULD

IMMAGINE: Manifesti radicali 1980




Il 21 giugno gli italiani saranno chiamati ad esprimersi su tre quesiti referendari che, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbero assegnare il premio di maggioranza alla lista maggiore anziché alla coalizione maggiore.
Premetto innanzitutto di essere tra quelli che ricordano con orrore la pateticamente riottosa coalizione di sinistra 2006/2008 che, dando un'immagine di se stessa orribile, ha letteralmente consegnato l'Italia nelle mani di Berlusconi pur avendo governato a livelli mediocri ma ben al di sopra di quelli a cui i cavaliere ci ha abituati. E' proprio in quel clima che il referendum è nato, e certo è nato per un motivo estremamente condivisibile.
Personalmente sono tra i pochi a sinistra che ne condivide lo spirito in pieno, e per l'Italia vorrei un modello presidenzialista alla francese: tutti concorrono alla pari, ma a governare è il solo vincitore, anche rappresentasse appena il 30% del paese.
Certo, quando si parla di presidenzialismo a tutti si drizzano i capelli all'idea di dare maggiori poteri a Berlusconi, eppure, mi chiedo: con quel parlamento di servi che si ritrova, siamo sicuri che non abbia già tutto il potere di cui ha bisogno? I suoi parlamentari hanno approvato il lodo Alfano in soli 25 giorni, senza proferire parola. Certo, non può farlo a cuor leggero: in cambio deve elargire favori economici e giudiziari ad alcune delle peggiori figure del paese, ovvero ai suoi compagni del PDL e ai leghisti - che tra l'altro deve appoggiare nei deliri xenofobi; ma non credo sia un gran vantaggio per la collettività.

Con riferimento al sistema elettorale che il referendum propone, che potremmo chiamare superporcellum secondo la definizione di Sartori, nascono però delle problematiche che si possono tranquillamente definire mostruose.

Innanzitutto, non si tratta di semplice presidenzialismo: lo sbarramento sarebbe dell' 8%, e questo significa che tra partiti troppo piccoli, fusioni, tendenza al voto utile e tendenza dei media a dimenticarsi del tutto di chi è uscito dal parlamento, andremmo pian piano verso l'esistenza di due soli partiti; è una cosa ben diversa rispetto al bipartitismo de facto alla francese dove UMP e PS se non si comportano più che bene rischiano di venir scalzati in ogni momento.
Il bipartitismo, per capirci, è il sistema americano dove basta che le lobby controllino i finanziamenti elettorali di due persone per impedire qualunque possibilità di cambiamento. La storia americana dalla fine dell'era Roosevelt la conosciamo tutti. Credo basti ricordare che Kennedy - il primo presidente veramente riformista - è stato assassinato con la complicità di apparati di stato, e che, pur essendo il paese più ricco del mondo, non han mai tirato fuori i soldi per impedire che i cittadini che non si possono permettere assicurazioni sanitarie “lussuose” muoiano di malattie curabilissime.
Oggi sembra che stiano affrontando un cambiamento, ma non possiamo dimenticarci che per arrivare ad aprire gli occhi hanno avuto bisogno della più grande crisi economica dal '29 e, non è un dettaglio, di trovarsi l'uomo (forse) giusto nel posto giusto al momento giusto.

Si trattasse solo di questo, comunque, potrebbe non esser considerata una tragedia: se è vero che in questi anni (anche alla luce del fatto che sono stati superati quanto a ricchezza pro capite da diversi paesi europei, già da prima della crisi dei mutui), gli USA stanno riconoscendo il nostro continente come modello, c'è da dire che l'Italia con i grandi paesi europei non ha nulla a che spartire se non un'eredità del passato che stiamo abilmente buttando via.
In questa situazione l'idea di un sistema che, presto o tardi, ci consegni ad un Obama capace di salvarci da noi stessi affascina. Ma la verità è che non andremmo verso il modello americano.

Ci sono due differenze fondamentali tra il superporcellum ed il bipartitismo USA. La prima e più palese è che non diventeremmo un paese presidenzialista: non verrebbe eletto un presidente con pieni poteri, di cui tra l'altro a meno di vivere in una dittatura mediatica – altra “piccola” differenza tra noi e gli USA - si conoscono con cognizione vita morte e miracoli. Verrebbe eletto un partito, che esprime un leader il cui “potere” naturale abbiamo avuto modo di sperimentarlo con Veltroni. In un sistema non presidenzialista nemmeno le primarie valgono molto: se il partito non ne ha un rispetto sostanziale decidono solo quale fantoccio mettere sul palco, ma nei fatti il fantoccio governa e sopravvive solo con la compiacenza dei capi partito.
Nel PDL però il “problema leadership” non esiste per motivi culturali interni (FI era un'emanazione delle aziende di Berlusconi, e gli amici di AN per lo più si accontentano di spartirsi il bottino), e la cosa difficilmente può cambiare, infatti siamo gli unici in Europa a non avere più il voto di preferenza. Questa è una differenza non da poco. Anzi, è qui che si annida il mostruoso del referendum.

Il nostro parlamento è un insieme di persone scelte dai capi di partito, è l'esatto opposto di quello americano. Nessuna voce fuori dal coro può essere eletta e contare qualcosa senza che i vertici, di loro spontanea volontà e senza nessuno che glie lo imponga, decidano di dare al partito una struttura democratica che metta in discussione i loro poteri ed i loro privilegi. Si rischia la paralisi totale.
A destra le cose non cambierebbero molto: non hanno bisogno di conservare nessuna decenza per vincere, tanto hanno le televisioni. A sinistra invece la concorrenza tra partiti - che pure spero vada verso una definitiva semplificazione - impone un minimo di costume nel modo di operare, ed anche se il PD sotto diversi profili sembra non capirlo, presto o tardi le batoste elettorali gli imporranno la comprensione della questione. O quantomeno porteranno qualcuno di più degno a sorpassarli.
Se i SI trionfassero al referendum però, il PD - diventato l'unico partito di sinistra, che decida di inglobarne o meno altri - si trasformerebbe in qualcosa a cui già fastidiosamente sembra tendere: una litigiosa e inamovibile oligarchia piena di scheletri nell'armadio, incapace di interpretare i bisogni dei loro stessi elettori e di fronteggiare il degrado della nostra democrazia.

Capisco benissimo che il secondo partito d'Italia voglia il bipartitismo, e capisco anche che alcuni lo vogliano in buona fede; ma noi dobbiamo salvarli da loro stessi, dalla tendenza di molti li dentro ad essere casta, dall'ovvia degenerazione che, in un paese conformista e arraffone come il nostro, porterebbe il PD ad essere esattamente uguale al PDL, solo con sei o sette capi – nemmeno necessariamente in competizione tra loro - anziché uno.

P.F.

IN ATTESA DI UNA SINISTRA CONCRETA...

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Scritto per: "L'Urlo" - il periodico di ULD


Premetto una cosa: benché non sia "il mio partito dio riferimento", alle europee alla fine ho votato Sinistra e Libertà. Mi sarebbe piaciuto vedere questa lista superare il quorum ed auspico che non scompaia in Italia una sinistra in senso proprio. Inoltre il programma per l'Europa era ottimo, così come i candidati.


Questa nuova formazione ha suscitato in me grande interesse ed ho approfondito molto le loro proposte nella speranza di trovarci la novità che promettono, ma ne sono rimasto estremamente deluso.

Non me la prendo tanto per le snobistiche frasi di Vendola alla “che senso ha l'esistenza se non si conosce un quadro di Monet, o una poesia di Montale...”, che giustamente fan venir voglia alla classe operaia di votare Lega. Capisco quello che intendeva dire, e ci passo sopra. I problemi sono altri e sono più gravi.


Tanto per cominciare, uno dei termini che sentite pronunciare in maniera più sprezzante nei parti della“sinistra radicale” è Maastricht. Bene, ma cos'è Maastricht? E' un trattato che ha stabilito che l'Europa è capitalista e sfrutta i lavoratori per arricchire i banchieri? Nemmeno per sogno!

Maastricht è un trattato che ha stabilito due cose molto semplici: non si può spendere più di quel che si guadagna, e bisogna stare attenti all'inflazione.


Ancora in questa campagna elettorale Vendola ha rivendicato con orgoglio la rottura di Rifondazione del '98 con il governo Prodi perché, a quanto dice, “era fissato con la “teologia di Maastricht e del pareggio di bilancio”.

Negli anni ottanta lo stato Italiano spendeva più di quante fossero le entrate, e dunque si indebitava: si è formato così in gran parte il nostro famoso debito pubblico - 110% del PIL, ogni 100 euro di tasse 18 li spendiamo per pagarne gli interessi che ammontano a oltre 50 miliardi di euro all'anno (per capirci, gli assegni di disoccupazione per tutti sarebbero costati 10 miliardi, il ponte sullo stretto costerà meno di un miliardo all'anno, i tagli all'università sono nell'ordine di tre miliardi, e via dicendo...). Questo modo di spendere dello stato – per fortuna – Maastricht lo proibisce, così come impedisce di continuare ad essere il paese dove ad un certo punto si canta “se potessi avere mille lire al mese mi potrei comprare villa con piscina”, e pochi decenni dopo con mille lire ci si comprano due caramelle. Ci rendiamo conto di cosa ha significato questo per chi voleva mettere da parte qualche risparmio? E perché succedeva? Per tanti motivi; uno di questi è che lo stato - indebitato fino al collo - stampava più denaro affinché questo perdesse valore e dunque ripagare i debiti costasse di meno.

Perché dunque a sinistra c'è ostilità verso Maastricht? Semplice: se si vogliono rispettare i parametri di Maastricht bisogna essere seri. Se c'è un problema sociale (disoccupati, stipendi bassi, orari di lavoro eccessivi, affollamento negli ospedali e via dicendo) lo si deve affrontare veramente, nel rispetto del buonsenso, trovando soluzioni efficienti, realistiche, e talvolta magari innovative. Questo evidentemente non va giù a tutti e si rimpiange il vecchio sistema di intervento: i disoccupati assunti nella pubblica amministrazione a prescindere dal bisogno, altri soldi agli ospedali, orari di lavoro ridotti d'imperio (si puntava alle sei ore), lo stesso con l'aumento degli stipendi... ma chi paga i rispettivi aumenti di costi e le rispettive inefficienze?

Ad alta voce si dice di “tagliare spese militari, tassare rendite finanziarie, tassare i ricchi, lottare contro l'evasione fiscale”. Ma la verità è che se poi il sistema rimane un sistema di sprechi (ed addirittura l'inefficienza la si vuole aumentare), queste manovre non bastano, anche perché si andrebbe ad intaccare di molto la produttività.

Badate bene: io non sarei pregiudizialmente contrario nemmeno ad un modello filocubano: “tutti equamente poveri”, è un'ipotesi che ha la sua concretezza. Ma a sinistra invece molti vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, e ritengono che lo stato non si debba far problemi ad indebitarsi per far momentaneamente rimanere tutto com'è. Non riesco a capire da cosa derivi quest'atteggiamento - anche se ho le mie ipotesi, e sono poco lusinghiere - ma certo si tratta di una pericolosa irresponsabilità che, se attuata, qualcuno prima o poi dovrebbe pagare. D'altronde la somiglianza tra questo sistema e le recenti speculazioni finanziarie è enorme...


Vorrei chiarire che questo discorso non ha nulla a che fare con gli indebitamenti a cui stanno provvedendo tutti gli stati a fronte della crisi economica.. e che tra l'altro, proprio in forza del nostro gigantesco debito noi non ci possiamo permettere. Gli altri paesi infatti finita la tempesta torneranno nella normalità.


Altro problema è il precariato, problema gravissimo che certo va affrontato in qualche modo. Che quello selvaggio all'italiana della legge 30 vada eliminato è un dato di fatto, ma per fare cosa? La proposta a sinistra tende ad essere inquietantemente tranchant... “c'è il precariato?” “lo aboliamo!”.

Bene, ma lo sanno da quelle parti che c'è una proporzionalità diretta tra rigidità del lavoro e numero di disoccupati? E tra numero di occupati e stipendi, come capiva già Marx? Valutiamo uno scenario possibile: tutti i contratti di lavoro a tempo determinato vengono aboliti.

    Le aziende iniziano ad assumere molto di meno perché i costi unitari sono più alti e perché si tratta di un investimento meno reversibile; qualche azienda, dal momento che la scomparsa del precariato implica un aumento dei costi fissi, fallisce; tutte aumentano i prezzi di vendita riducendo il potere d'acquisto dei cittadini. Il numero di disoccupati dunque aumenta così come il costo della vita, ed è già di per se una tragedia; questo si aggiunge che i disoccupati vogliono lavorare, sono disposti ad essere pagati anche un tozzo di pane. Le imprese - che già si vedono la produttività ridotta e non brillano per solidarietà - se c'è qualcuno che lavora per un tozzo di pane non offrono certo di più: si abbassano gli stipendi, ed aumentano anche le persone talmente in crisi da essere disposte a lavorare in nero senza nessuna tutela.


Ora, vorrei essere chiaro: io ho disegnato solo uno scenario possibile, non una realtà di fatto dipinta con precisione. La verità è che ci sono un'infinità di variabili che influenzano il mercato del lavoro: si tratta infatti del nodo più problematico del nostro tempo. Non posso fare a meno di notare che i paesi più socialisti del mondo benestante – i paesi scandinavi – sono paesi dal lavoro flessibile. Si tratta dei paesi in cui le diseguaglianze sociali sono più basse al mondo e dove il potere d'acquisto del cittadino è più alto. Non dico necessariamente di copiare da loro, ma quando Vendola spiega – ed ha ragione – che il lavoro flessibile rende il lavoratore più ricattabile, deve però render conto anche delle altre mille variabili. Per poi magari proseguire sulla stessa strada, non sono pregiudizialmente contrario a nulla, ma non si può semplicemente eludere il problema.

Quando afferma che “il lavoro flessibile sarebbe bellissimo ma in una società che ha raggiunto la piena occupazione” dimostra di non aver proprio capito nulla della questione. Il lavoro flessibile in Europa non è stato introdotto da governi di destra e di sinistra (in modi migliori o peggiori) perché è divertente cambiare lavoro ogni tanto, decisamente non è quello il punto.


Personalmente credo ci sia un forte bisogno di un partito capace di mettere “gli ultimi” al centro dell'agenda politica, di liberare i cittadini dalla paura del futuro, dell'indigenza, dalla precarietà dell'esistenza. Credo ci sia bisogno insomma di un partito capace di realizzare gli slogan di Sinistra e Libertà. Ma questo compito non potrà essere affidato a chi vive in un mondo totalmente astratto.


P.F.